Chiarire un mistero è indelicato verso il mistero stesso
Andrea de Chirico, conosciuto come Alberto Savinio, nasce ad Atene nel 1891 da genitori italiani, fratello minore del pittore metafisico Giorgio de Chirico. In seguito alla morte del padre e ad una breve parentesi in Italia, nel 1906 si trasferisce a Monaco con la madre e il fratello. In Germania ha inizio la sua carriera artistica, attraverso lo studio del contrappunto con il compositore Max Reger e la composizione di un’opera intitolata Carmela.
Nel febbraio 1907, Savinio e il fratello lasciano Monaco per trasferirsi in Italia, a Roma, Milano e poi Firenze. Qui i fratelli studiano le lingue classiche, letteratura, musica e filosofia, praticando anche la pittura e il disegno, lavorando insieme e gettando le fondamenta di un nuovo linguaggio metafisico.
Nonostante ciò, nel 1911 Savinio si trasferisce a Parigi, separando completamente la sua strada da quella del fratello, finché nel gennaio 1914 proprio de Chirico gli presenta Guillaume Apollinaire. Apollinaire e Savinio diventano grandi amici e collaboratori, con brevi partecipazioni di Savinio ai circoli avanguardisti del poeta. In quello stesso anno, decide di adottare lo pseudonimo di Alberto Savinio, per distinguersi dal fratello.
Quando l’Italia entra nella prima guerra mondiale, nel maggio 1915, Savinio e il fratello Giorgio de Chirico tornano a Firenze, da dove vengono poi inviati di stanza a Ferrara.
Qui iniziano una fitta corrispondenza con Ardengo Soffici e Giovanni Papini, che li introducono alla scena letteraria e artistica italiana. Carlo Carrà arriva a Ferrara nella primavera del 1917, dando vita alla breve alleanza che verrà in seguito definita come ‘Scuola Metafisica’. A Ferrara, Savinio abbandona la musica e si dedica interamente alla letteratura, pur non smettendo mai con il disegno.
Nei primi anni ‘20, Savinio collabora con tutte le più importanti riviste letterarie in Italia e assiste al ritorno della sua passione per musica e teatro. Nel 1926 raggiunge il fratello a Parigi e inizia a dedicarsi seriamente alla pittura, ricevendo apprezzamenti da pubblico e critica. La sua prima mostra personale, tenutasi alla Galerie Bernheim-Jeune nel 1927, è presentata da Jean Cocteau. Savinio continua a coltivare i contatti stretti con André Breton e i Surrealisti, mentre a livello commerciale lavora con gallerie che gravitano intorno a Paul Guillaume e Léonce Rosenberg.
Le tematiche chiave della pittura di Savinio vertono sulla memoria e sull’infanzia, entrambe presenti anche nei suoi scritti. Un punto cardine della sua opera è la nostalgia nei confronti del padre Evaristo, presentato all’interno del suo lavoro come una “discesa nel passato” dell’infanzia attraverso immagini di giocattoli, presentati come un’isola nel mare, o in una foresta orscura, alludendo direttamente alla sua infanzia intrisa di lutto. I giocattoli raffigurati nei dipinti si innalzano come mausolei e trofei per celebrare la stagione perduta che l’artista rivisita e riscopre attraverso la pittura. Negli anni successivi Savinio costruisce un ampio apparato iconografico di figure ibride e metamorfiche, sospese tra statuaria antica e raffigurazione di corpi viventi, tra artificio e umanità, mostruosità e bellezza. Queste forme e silhouette colorate creano paesaggi onirici e “isole” dove i ricordi dell’artista si fondono con il mito.
Questo successo è però di breve durata e termina con il crollo finanziario del 1929. Nel 1933 torna in Italia, stabilendosi inizialmente a Torino prima di trasferirsi a Roma. Dalla metà degli anni ’30 e per gran parte degli anni ’40 si dedica all’attività letteraria e al giornalismo. In questo periodo abbandona praticamente la pittura, praticandola solo occasionalmente, dedicandosi alla grafica, illustrando spesso le proprie pubblicazioni. Nel secondo dopoguerra si dedica nuovamente alla musica, componendo il balletto Vita dell’uomo e contemporaneamente dirigendo spettacoli e allestendo scenografie, collaborando con successo con il Teatro alla Scala di Milano e il Maggio Musicale Fiorentino, per il quale esegue il suo ultimo lavoro nel 1952 con la messa in scena dell’Armida di Gioacchino Rossini.
Nel 1952, il percorso intellettuale e creativo di Alberto Savinio viene interrotto dalla sua morte improvvisa, lasciando dietro di sé un’eredità artistica in cui si fondono musica, letteratura, pittura, giornalismo, drammaturgia e scenografia.